Opinioni - Quando il cambiamento cancella. Riflessioni su un messaggio che, in nome dell'inclusione, impone un pensiero unico e tenta di omologare la lingua e l'identità.
Passeggiavo lungo la fine del Corso, dove sorge il Palazzo della Cultura di Cassino, quando mi sono imbattuto in una locandina che mi ha colpito – e, lo ammetto, anche disturbato – non per ciò che esponeva, ma per ciò che implicava. Vi si leggeva: «La famiglia fondata sull’unione tra uomo e donna», con una barra rossa che cancellava le parole “uomo” e “donna”. A seguire: «Diventa ciò che sei. Unica. Diversa. Scomoda.» con il nuovo simbolo grammaticale del neutro – una ‘e’ rovesciata – e infine: «Partecipa al cambiamento».
Ora, che una società cambi, evolva e accolga nuove forme di pensiero e di convivenza è non solo naturale ma auspicabile. Ma quando il cambiamento si trasforma in cancellazione dell’esistente, in negazione di ciò che è stato e continua ad essere per moltissime persone fonte di senso, affetto e identità, allora siamo davanti a qualcosa di diverso. Non progresso, ma imposizione. Non libertà, ma dittatura pedagogica.
Cancellare con una barra rossa le parole “uomo” e “donna” – le parole stesse, non un’idea, non una visione – è un gesto che travalica l’intento simbolico per trasformarsi in un atto politico di esclusione. Ed è tanto più paradossale in quanto compiuto in nome dell’inclusione.
Questa operazione, che si vuole rivoluzionaria, si rivela in realtà profondamente ideologica e dogmatica. È la riproposizione, aggiornata nei toni e nei mezzi, di un certo atteggiamento tipico di una sinistra antropologica, che non si limita a proporre nuove visioni del mondo, ma pretende di rieducare chi non le condivide. Una pedagogia obbligatoria che lascia intendere che ogni pensiero contrario sia frutto di arretratezza, ignoranza o chiusura mentale. Ma la diversità vera non si afferma cancellando l’altra diversità. Non si costruisce un mondo più giusto facendo tabula rasa di ciò che esiste, bensì imparando a convivere. Non c’è nulla di rivoluzionario nel dichiararsi “unica, diversa, scomoda” se lo si fa negando la stessa legittimità agli altri, che a loro volta sono unici, diversi, magari scomodi. Il rispetto non si invoca: si pratica.
E voglio aggiungere che esistono esempi reali, concreti, di questa coesistenza possibile tra modelli diversi. Uno di questi, per me, è rappresentato da Tommaso Cerno. Un giornalista e intellettuale che ammiro proprio per il modo in cui vive la propria diversità: con orgoglio, senza ostentazione; con coerenza, senza fanatismi; con libertà, senza pretendere omologazione. Pur non condividendo né il suo orizzonte politico né i suoi orientamenti personali, trovo in lui una testimonianza autentica di come si possa essere sé stessi senza negare gli altri. Così dovrebbe essere. La vera inclusione si fonda su questa capacità: esprimersi senza escludere, differenziarsi senza disprezzare, convivere senza cancellare.
È qui che si coglie il senso più profondo della mia perplessità: l’impressione di un’“okkupazione simbolica” del Palazzo della Cultura. Non un luogo neutro, plurale, aperto alla varietà delle visioni, ma sempre più spesso sede di manifesti e messaggi che veicolano un’unica idea di cambiamento. E che non includono, ma escludono. Che non dialogano, ma educano. Che non si aprono, ma si affermano unilateralmente.
E infine, il nodo più delicato: il linguaggio. La nostra lingua, che si è forgiata lungo due millenni di civiltà, distingue maschile e femminile non per discriminare, ma per esprimere la ricchezza e la concretezza della realtà. Modificare forzatamente il genere grammaticale, imporre simboli artificiali come la ‘e’ rovesciata, non è un passo verso l’inclusione, ma un tentativo di omologazione al neutro. E il neutro, se imposto, diventa negazione del vissuto. La vera inclusione è riconoscere tutte le storie, anche quelle che non rientrano nei nuovi canoni dell’identità fluida. È ammettere che la famiglia fondata sull’unione tra uomo e donna esiste, resiste e chiede rispetto, non perché nega le altre, ma perché non vuole essere negata.
Non c’è cambiamento autentico senza memoria.
Non c’è libertà se si chiede solo consenso.
Non c’è rispetto dove si cancellano le parole.
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