Globalizzazione, delocalizzazione  e la crisi di Stellantis

Opinioni - Anche nella nostra Bassa Ciociaria si fanno sentire gli effetti dannosi delle cosiddette teorie neo liberiste che da tempo imperano in Europa ed anche nel nostro Paese, basate sulla concezione assoluta dell’idea di libero mercato, che non ha bisogno di confini, né di dazi né tanto meno di regole

Globalizzazione, delocalizzazione  e la crisi di Stellantis
di Redazione - Pubblicato: 18-12-2024 19:20 - Tempo di lettura 2 minuti

di Riccardo Pignatelli

Anche nella nostra Bassa Ciociaria si fanno sentire gli effetti dannosi delle cosiddette teorie neo liberiste che da tempo imperano in Europa ed anche nel nostro Paese, basate sulla concezione assoluta dell’idea di libero mercato, che non ha bisogno di confini, né di dazi né tanto meno di regole.

Voglio ricordare che tra concezione liberale e concezione liberista dell’economia vi sono differenze fortemente caratterizzanti, con la prima si parla di un mercato libero da lacci e lacciuoli burocratici, favorito da una coerente legislazione che permetta il libero scambio di merci, capitali e risorse finanziarie ed umane, però regolate da princìpi normativi che garantiscono anche il lavoro, produttività e stabilità sociale; mentre con il liberismo vige il criterio che il mercato regola tutto a cominciare da  se stesso e non deve essere soggetto ad alcun vincolo esterno.

Il cosiddetto: meno stato e più mercato!

Forzando un po' il concetto potremmo dire che il liberismo è la faccia opposta del comunismo, ma condivide con quest’ultimo una sorta di pensiero totalitario dell’economia, nel senso che tutti e due  mettono a capo della teoria economica categorie assolute e non relative. La storia ci ha mostrato il fallimento del primo ed ora ci mostra i mali irreparabili del secondo.

Noam Chomsky, filologo e linguista, ma anche filosofo di teorie sociali e premio Nobel, in alcuni suoi saggi   ha spiegato che la libertà assoluta senza vincoli nè regole  concessa al mercato e soprattutto alla finanza, già a partire dagli anni ‘70, ha dato avvio al cosiddetto processo di globalizzazione e mondializzazione dell’economia, che a seguire ha generato ricchezza concentrata nelle mani di pochi, nuovi padroni e nuove povertà.

Si è passati gradualmente da una economia  mondiale essenzialmente basata sulla produzione di beni reali ad una economia finanziaria di livello globale che utilizza i capitali per generare profitti attraverso speculazioni  di danaro e che non ha più bisogno di investire per crescere.

 Realtà che sembrano non riguardarci da vicino, ma  poi finiscono per incidere sulla vita delle persone, sugli strati sociali e sulle economie locali, con effetti a volte devastanti  per  famiglie ed imprese.

Nell’ambito della produzione industriale, ad esempio, la globalizzazione ha imposto  un livello di competitività al ribasso dando corso al processo di delocalizzazione delle attività produttive in aree del mondo  a bassi costi di produzione, di mano d’opera, di sicurezza e tutela ambientale, così da garantire  agli investitori  profitti sempre maggiori a fronte di minori di investimenti.

La mancanza poi di adeguate politiche economiche da parte degli stati nazionali  atte a fronteggiare gli oneri negativi della globalizzazione e l’assenza di regole di riequilibrio dei mercati in contesti sovranazionali, hanno fatto sì  che  si determinasse un sistema  industriale e finanziario che risponde  solo a se stesso e persegue esclusivamente  i profitti.

In Europa e  nel nostro Paese la crisi dell’automotive  ne è un esempio. Il risultato è che  le aziende  per competere delocalizzano dove meglio credono, a prescindere da qualsiasi obbligo di tutela occupazionale e di sviluppo dei territori locali che ospitano gli impianti esistenti.  Un fenomeno la cui dinamica è divenuta persistentemente liquida e senza freni.

La crisi di Stellantis e con essa  la minaccia di riduzione della produzione di auto in vari stabilimenti, tra cui quello di Piedimonte San Germano, di cui tanto si parla e si discute in questi giorni, non è altro che il risultato di questo complesso processo di riconversione industriale  in corso  in Italia ed in tutta  Europa, a fronte di una competizione ad armi impari con grandi colossi come la Cina, l’India ed altri paesi emergenti.  

 Il sociologo e premio Nobel Z.  Bauman, da poco scomparso, nel suo saggio “Dentro la globalizzazione, le conseguenze sulle persone” evidenziava già allora  (1998) gli effetti negativi della globalizzazione e i disagi e le diseguaglianze che essa avrebbe generato soprattutto a carico degli strati sociali più deboli.

La globalizzazione, avvertiva, toccherà la vita di miliardi di persone, ed alla fine, concludeva,  il globale nel tempo a seguire sarebbe diventato sempre più locale ed individuale e, quindi, avrebbe  riguardato ciascuno di noi.

Studi recenti hanno infatti dimostrato come a patire gli effetti negativi della globalizzazione siano soprattutto i paesi più sviluppati, nei quali cambiano più velocemente le condizioni sociali dei cedi medio-bassi  e dei lavoratori a seguito della carenza di posti di lavoro  per effetto delle cosiddette delocalizzazioni. Pensare, quindi, di poter risolvere il problema senza  ipotizzare alcuna inversione di tendenza a livello globale, tentando di riscrivere almeno  parte delle regole della globalizzazione, è semplicemente un modo dilatorio di affrontare la questione.

Tornando nel Bel Paese, occorre aggiungere che da noi il de profundis del mondo del lavoro è stato segnato anche  dall’abbattimento dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, che permette alle aziende   di licenziare con on un semplice sms!  In un contesto così complesso la lotta dei sindaci e delle varie istituzioni territoriali, quali rappresentanti diretti dei territori,  diventa ogni giorno una battaglia sempre più difficile da vincere, anche quando a metterci la faccia sono le Regioni ed i Ministeri.

La teoria keynesiana, tanto blandita dal libero capitale, ci ha invece insegnato che le crisi di questa portata, cioè quelle che determinano fasi di grave recessione economica, vanno superate con l’intervento pubblico nell’economia e che le politiche economiche degli stati nazionali  sono necessarie  per modulare i mercati, al fine di recuperare stabilità economica e sociale. Se non si cambia rotta, quindi, si rischia di continuare a curare una malattia gigante con i semplici pannicelli caldi!





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