Opinioni - Sul palco, i temi di sempre — salari più alti, pensioni da rivalutare, più fondi per la sanità, la scuola, i trasporti, no al riarmo, basta carovita. Temi veri, sociali, concreti. Eppure, lo slogan che li racchiudeva — “Democrazia al lavoro” — apre una riflessione che va oltre il contesto sindacale
Roma, piazza San Giovanni. Una folla imponente, bandiere, cori, striscioni: la manifestazione nazionale della CGIL.
Sul palco, i temi di sempre — salari più alti, pensioni da rivalutare, più fondi per la sanità, la scuola, i trasporti, no al riarmo, basta carovita. Temi veri, sociali, concreti. Eppure, lo slogan che li racchiudeva — “Democrazia al lavoro” — apre una riflessione che va oltre il contesto sindacale.
Non è solo una formula comunicativa. È un segnale. La preposizione “al” non è un dettaglio: cambia la prospettiva, altera il significato, sposta l’asse del discorso.
Dire “Democrazia al lavoro” non equivale a dire “Democrazia nel lavoro”. La prima espressione suggerisce un’urgenza: rimettere al lavoro la democrazia, come se fosse ferma, intralciata, compressa da un potere che la limita. Un piccolo scarto linguistico, ma capace di generare un’eco profonda: quella di un Paese che, tra le righe, viene rappresentato come meno libero di quanto sia. Eppure la piazza non denunciava leggi liberticide, né restrizioni del pensiero o della parola.
Denunciava stipendi bassi, disuguaglianze, precarietà. La democrazia non c’entrava. E allora perché evocarla? Perché pronunciare quella parola solenne quando il tema è un altro? Perché la parola “democrazia” oggi non è più solo un valore: è diventata un simbolo da brandire, un riflesso pavloviano capace di polarizzare l’opinione pubblica.
Chi la pronuncia si autoassolve, chi ne è criticato si delegittima. E così, un confronto sociale si trasforma in messaggio politico: non più “miglioriamo le condizioni del lavoro”, ma “salviamo la democrazia da chi governa”. È una strategia consapevole, costruita con cura semantica. Oggi la politica non persuade con i programmi, ma con le parole.
E quando la parola si fa slogan, l’idea si fa sospetto. Non si dice “regime”, ma lo si lascia intendere. Non si accusa apertamente, ma si insinua. E questo, in una democrazia matura, è forse il modo più sottile per indebolirla. Perché la democrazia non è un’entità da invocare nei cortei: è un organismo vivo, che respira ogni giorno nelle istituzioni, nella libertà di pensiero, persino nella possibilità di contestare il potere senza temere repressione.
Non ha bisogno di essere “rimessa al lavoro”. Lavora già, con discrezione e fatica, nel diritto e nel dissenso. La misura, dicevano i Romani, è la più alta forma di virtù: in media stat virtus. Saper distinguere tra conflitto sociale e sospetto politico, tra critica e propaganda, tra parola e manipolazione. Solo così la democrazia continuerà a lavorare davvero —non nelle piazze, ma nella coscienza di chi pensa.