A ruota libera: sulla traiettoria di viaggi ed idee - Il bianco, un vuoto da riempire o un mondo da scoprire? In un mondo che corre, fermarsi e ascoltare. Un nuovo appuntamento con la rubrica 'A ruota libera: sulla traiettoria di viaggi ed idee'
Non si riesce a scrivere lo spazio bianco, non si scrive in realtà. Te lo immagini. È la striscia che costeggia la strada e che guardi quando c’è nebbia , è notte e non sai bene dove stai andando.
È quel rigo che alle elementari mi facevano saltare, quando stavo imparando a scrivere; cambiai scuola nel giro di quindici giorni e non seppi mai rispondere alla maestra della “scuola nuova” perché non riempissi tutti i righi del quaderno, cosa fosse quella mania di saltarne uno.
Non me lo sapevo spiegare neppure io, in realtà. E forse quel bianco, per quanto piccolo , intervallato subito da parole e punteggiatura, mi faceva già paura, perché pensavo che ad ogni pezzetto della realtà che attraversavo, bisognasse dare un nome, una collocazione.
Ma potrebbe essere anche quel tragitto bianco che oggi ho percorso, mentre il vento mi copriva gli occhi ed io ero altrove, in un luogo in cui non distinguevo più distanze e riferimenti.
Sono i “Dieci minuti” di esercizio nuovo al giorno che Bianca, la protagonista del film di Maria Sole Tognazzi, deve fare ogni giorno per imparare a lasciare andare e nel contempo riempire quello spazio che man mano si sta svuotando della vita di prima; la stessa vita di prima che non appartiene più neppure a Violette Toussant, che nel romanzo “Cambiare l’acqua ai fiori”, insegna che gli spazi bianchi , prima di essere riempiti di nuovo, occorre saperli guardare.
Quanti spazi bianchi non lasciamo che siano quello che sono, che stiano lì inerti, a suggerirci un vuoto, un equilibrio che si sta rompendo, ma noi abbiamo paura che quel che ne possa venire giù, quel fiume in piena di parole e pensieri trattenuti, si possa portare via la vita di prima, che per quanto sgangherata e logora, è l’unica che sappiamo abitare?
Pensiamo che essere accumulatrici seriali di ambizioni e nuove cose preconfezionate apposta per non lasciarci nessuna anta del cuore aperta e deserta, ci salvi dall’assenza di significato.
Siamo quel che abbiamo, siamo gli spazi pieni, zeppi, spesso confusionari, bulimici di inutilità, noiosi di vizi che neppure più ci piacciono, di deviazioni che all’origine viaggiavano sui tacchi vertiginosi e sexy delle più audaci trasgressioni , e che ora, invece, sono soltanto la messa in scena, mal riuscita, del più modaiolo e scontato anticonformismo.
Così mentre scrivo e riempio questo spazio bianco click dopo click sulla tastiera del mio pc, Giorgio, che di spazi bianchi se ne intendeva, mi si piazza al centro della memoria, riportandomi a quella sala conferenze della mia scuola media, nel rione di un paese che è stata infanzia e adolescenza insieme, e che , manco a farlo apposta, si addobbava di scarni mobili color marroncino su un pavimento di marmo immacolato.
Giorgio si presentava con quanto più spazio bianco ci potesse essere; ti abbagliava e , proprio per questo, nel contempo ti respingeva con tutto quel suo spazio bianco: bianco era il posto assente del papà, che lo aveva abbandonato quando era piccolo; bianca era la vita modesta che conduceva con la madre; priva di quelle cose alla moda che la maggioranza dei compagni indossava con orgogliosa disinvoltura.
Bianca era anche la malattia del suo cuore, così debole, così a passo diverso, che gli impallidiva il volto e lo faceva entrare dopo a lezione, ed uscire prima.
Bianca, però, di un candore diverso, luminosa come le lucine di Natale, fu anche la sorpresa di sentirlo intonare una canzone, al centro di quella sala, con un pubblico che si stava preparando per altro, che a lui manco lo aveva notato mentre scendeva le scale e si andava a mettere vicino all’insegnante di musica, che si accingeva a tirare fuori la sua chitarra commossa; ma fu questione di attimi e tutti in quella sala capirono che Giorgio era riuscito laddove nessuno si pensava mai capace di poterlo fare, in quella impresa così ardua e rara di saperlo abitare quello spazio bianco, senza la foga di riempirlo a caso, senza la paura di osservarlo e starci dentro, di piangerselo, a volte, ma senza subirlo, senza diventarne ossessionato, piuttosto facendolo diventare terreno fertile in cui scoprire un talento, il suo, quello del canto, che aveva tutta la dolcezza prepotente delle cose che non forzi, ma che , nel contempo, non sprechi neppure.
Quel canto, quella “Lei” di Umberto Tozzi, fu lo squarcio colorato che nessuno si aspettava in quel bianco che però non sparì d’un tratto dalla scena: quel bianco ne era complice, era quell’essenziale con il quale devi saper restare, anche quando resta muto e ruvido e ti pare che ti stia allontanando dalla vita che intanto lì fuori scorre così veloce e densa di cose da fare.
Ma la vita fuori non sempre è vicina a quel che sei ed ognuno ha il suo bianco da abitare, perché ogni bianco è diverso, mentre ogni colore esterno, senza aver attraversato prima il tuo bianco, è così uguale a quello degli altri da non avere nessun senso e, soprattutto, alcun talento. Giorgio oggi non c’è più, ma il suo bianco diventato colore io lo sento ancora cantare ogni volta che passo davanti alla nostra scuola media.
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