A ruota libera: sulla traiettoria di viaggi ed idee - Quando l'anima scava oltre la superficie. Un ponte tra "Cuore nero" di Silvia Avallone e l'eredità di Papa Francesco: perdono, fragilità e la ricerca di un'alba interiore. Così come ha detto Don Giovanni...
Non sempre tutto quello che ci accade prende immediatamente forma dentro di noi. Ci sono eventi, incontri con cose e persone, che hanno bisogno di tempo per sedimentarsi in fondo al nostro cuore, per prendere forma attraverso le parole e seguire una rotta che conduca ad una meta.
Questa estate ho avuto tra le mani un libro rovente quanto le temperature che respiravo in spiaggia, passando da una pagina ad un’altra. L’ho dovuto riporre spesso sopra la sdraio, e non soltanto perché mi andasse un tuffo al mare o venissi raggiunta dalla distrazione del momento.
Ma perché sostenerne la storia si intrecciava continuamente con il rimbalzo di interrogativi il cui peso forse faceva da eccessivo contraltare alla leggerezza della stagione. Quel libro così, di improvviso, finito da tempo e riposto sulla mia mensola che orgogliosa li sfoggia uno dietro l’altro, è tornato alla memoria; ma non quella cognitiva delle cose che hai studiato e letto, bensì quella più nascosta, viscerale e potente dei sensi.
Quella memoria che proprio perché si mescola con l’istinto e con l’empatia che hai sul mondo, che va a scovare le cose che ti appartengono prima ancora di nascere, per indole innata e profondità che ti è stata data in dono, o forse come condanna, non ti lascia nemmeno con il passare del tempo; non sbiadisce, non si colora di altri aneddoti, ma diventa fusa nel tuo respiro.
Mi sono così ritrovata a tessere un ponte fra la storia narrata da Silvia Avallone, in “Cuore nero”, e la morte di Papa Francesco, che ha scosso il mondo tutto, senza alcuna divisione fra credenti e atei, fra cattolici praticanti e non, fra uomini di Chiesa ed uomini del popolo.
Ho vissuto la mia educazione scolastica, per buona parte, o meglio almeno fino alla prima infanzia, nelle scuole cattoliche, di quelle con la divisa, la preghiera prima di pausa pranzo, la liturgia imposta e quel senso di obbedienza instillato come il necessario ed ineludibile presupposto di ogni speranza di felicità futura.
In quei tempi credo di aver perfino maturato un senso dell’affetto e dell’amore troppo irrealisticamente legato al merito e allo sforzo di assecondare le regole: per fortuna mi è venuta la voglia opposta di trasgredirle e qualcosa dentro di me ha fatto spazio piuttosto all’opinione che l’amore comporti come prima cosa quello stato di grazia di accoglierti nella tua più autentica e profonda imperfezione: si ama quello che si è, che sgorga spontaneamente dalla sorgente della propria personalità, e non quello che facciamo per dimostrare le nostre abilità o qualità, meno che mai se al servizio altrui.
Papa Francesco è stato l’uomo meno di Chiesa e più di folla che abbia osservato nel Pontificato da quando sono al mondo o da quando, quanto meno, sono in condizione di esprimere un giudizio: il suo richiamo al coraggio di essere felici; il suo abbraccio all’umanità più debole e anche più imperfetta; la sua accoglienza alle cadute ed il suo messaggio di essere capaci di vincere la paura abbandonandosi allo stupore del mondo, mi hanno fatto percepire una religione che rinuncia al giudizio, a quello universale di condanna all’inferno piuttosto che al purgatorio.
Non a caso ci ha lasciato un decalogo dove ci parla di andare oltre, e subito, le cose negative, donandosi alle nuove, senza starci troppo a pensare: se si resta troppo a lungo sugli errori fatti si rischia di ristagnare.
E nel ristagno tutto è più facilmente corruttibile: nessun accenno alla punizione, piuttosto un invito a perdonarsi, perché, come ben detto da Don Giovanni, nella sua omelia di Pasqua, nella Chiesa di San Giovanni, orgogliosamente il mio quartiere, siamo tutti chiamati ad essere uomini e donne dell’alba, che significa avere una prospettiva, non vedere l’ora di svegliarsi la mattina per realizzare qualcosa.
Ma questa voglia di realizzare qualcosa, questa smania di vita che scalcia e rifugge le tenebre in cui gli errori vorrebbero inghiottirti, appartiene a tutti? Appartiene ad esempio, anche ad Emilia, nonostante a soli sedici anni abbia ucciso una sua coetanea?
Scava negli abissi Cuore nero; ti prende per mano e ti porta al di là dei tweet e dei post di facebook; delle condanne di piazza, di quello che si ferma in superficie: ero al mare e pensavo che mi veniva voglia, ad ogni rigo in più di quella storia, di superare le onde e misurarmi giù, là sotto il terreno sul quale poggia il mare, a scandagliare gli abissi perché anche di quelli , anzi soprattutto di loro, è fatta l’anima.
Al mondo offriamo soltanto la buccia: quella lucidata e messa in vetrina nelle bancherelle, che riluccica e ci promette di essere succosa e piena di polpa buona; ma il cuore dell’anima, l’osso che batte sotto la pelle, è pieno di striature.
Ed Emilia fa i conti con loro, con la sua fragilità che per il mondo è crudeltà senza appello: non si finisce di scontare la pena nel carcere, laddove tutto sommato si è protetti dalla circostanza di dividere lo stesso fallimento e quindi di poter godere della reciproca indulgenza.
Si sconta oltre, nell’esilio di un piccolo paese, ai confini con il mondo abitato, in quel di Sassonia, dove però la vita riesce ad irrompere ugualmente: perché la vita se decide di scombussolarti e chiamarti a sé nuovamente, lo fa con una prepotenza alla quale non puoi resistere.
Quella dell’incontro con un sentimento che sia pari all’odio che nutri per te stessa, per lo meno in intensità ed irrinunciabilità: così si intrecciano i destini di Emilia e Bruno: l’una carnefice, colpevole di un delitto orrendo, l’altro, all’opposto, unico sopravvissuto ad un incidente che lo ha reso orfano e privato di una sorella.
Nessuno dei due si perdona: la prima di aver compiuto un gesto così crudele ed irreparabile, l’altro di essere stato l’unico sopravvissuto ad una strage familiare. Il perdono di aver tolto la vita incoraggia il perdono per essere ancora vivo, e viceversa.
“Eravamo due esseri umani. Quello che lei aveva compiuto, avrei potuto compierlo io, era una possibilità che tutti avevamo nel corpo e in quello che c’era dentro: l’anima? L’abisso? Di colpo mi accorsi di quanto tutto, tutto il bene contenuto in noi e nella materia, fosse precario e meraviglioso, degno di cura a qualsiasi costo. Allora cos’era il male? Il non saper perdonare”.
Quante volte non ho perdonato, e neanche mi sono perdonata in virtù di quella presunzione che bisogna sempre sapere ciò che è bene fare, ciò che lucidamente e saggiamente la realtà ci suggerisce: ma siamo nati negli abissi e a quelli siamo tentati di tornare; anche quando non sono male assoluto, ci spingono a cercare la profondità di ciò che non è immediatamente visibile e intuibile.
Perdonare è, in fondo, la forma più intesa dell’amare e l’amore verso se stessi e gli altri può significare soltanto trovare il coraggio di disubbidire non solo ai giudizi altrui (cosa che Bruno farà e che Riccardo, padre di Emilia, ha saputo fare fin da subito), ma perfino a ciò che appare logico e razionale.
Così, nel libro, Bruno ed Emilia dicono: “Ci scambiammo un rapido sguardo luccicante prima di entrare, poi, come se ci conoscessimo a stento, come se non avessimo trascorso insieme ogni singola notte degli ultimi dieci giorni, sgusciammo nella porticina laterale, finendo tra le pieghe di una spessa tenda di velluto, dove feci in tempo a rubarle un bacio, in spregio alle malelingue, ai bacchettoni, a chi crede di avere la verità in tasca”.
Ed anche a chi nella condanna ferocia degli abissi altrui, cerca di soffocare la paura ,un giorno, di conoscere i propri.
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